Filopalestinesi o filoisraeliani, la guerra di Gaza è colpa nostra

Filopalestinesi o filoisraeliani, la guerra di Gaza è colpa nostra

Dopo la fine dei Mondiali, l’attenzione del mondo si è spostata sull’aereo abbattuto nei cieli dell’Ucraina orientale. Il missile che ha abbattuto il volo MH17, immortalato dai satelliti americani, ha soppiantato il pallone e ha oscurato altri missili, quelli sparati dalla Striscia di Gaza verso Israele, e spesso intercettati dall’Iron Dome, il sistema di missilistica ultra-tecnologico che protegge le città israeliane.

In questa epifania di razzi, quelli mediorientali sono di serie B. Del resto, il mondo aveva ignorato Eyal, Gilad e Naftali, i tre studenti rapiti e poi barbaramente trucidati a Gerusalemme da terroristi palestinesi, e poi Mohammed, il giovane palestinese bruciato e ucciso da estremisti ebrei israeliani (poi arrestati) per vendetta. In tutto questo periodo, il mondo ha sperato che l’accumulo di tensione tra israeliani e palestinesi si sgonfiasse con l’arrivo della canicola, peraltro latitante.

Israele, Gaza e Hamas non sono mai comparsi nei top trend di Twitter Italia, la classifica delle parole più menzionate. E invece la guerra a Gaza è arrivata sul serio, nonostante il governo israeliano non la volesse. Hamas ha continuato a lanciare i suoi missili iraniani e nessuno Stato può accettare che i suoi cittadini siano bersaglio di un’organizzazione terroristica. L’invasione di terra sta mietendo tante vittime innocenti – per la gioia dell’ufficio stampa di Hamas – e un numero record di soldati israeliani, a dimostrazione che proprio di guerra si tratta.

Come siamo arrivati fin qui? Di chi è la colpa? Innanzitutto nostra. Tutti occupati a distribuire torti e ragioni, ci siamo ricordati di israeliani e palestinesi solo quando non c’era nulla di meglio da fare. Un paio di appelli e via, fino al prossimo ammazzamento. Non abbiamo protestato per l’afasia assordante dell’Europa – occupata a promuovere boicottaggi e non cooperazione – né per l’evidente incapacità degli Stati Uniti di gestire un Mediterraneo sconvolto dalle “primavere” arabe, come oggi non ci indigniamo per gli episodi di antisemitismo nel cuore dell’Europa.

Non abbiamo condannato – chi si proclama filopalestinese – ciò che accade nella Striscia di Gaza, dominata da un movimento integralista che brutalizza innanzitutto i palestinesi, soprattutto se donne, omosessuali, bambini; non abbiamo stigmatizzato – chi si considera filoisraeliano – il governo israeliano, quando proseguiva con gli insediamenti e non mostrava alcuna lungimiranza indebolendo Abu Mazen.

Non abbiamo invocato a gran voce l’avvento della politica, quella alta, perché faticavamo a scorgerne gli interpreti autorevoli e anche gli obiettivi. Come in Siria. Preoccupati dal nostro destino, abbiamo deplorato (poco) i massacri di Assad ma in cuor nostro non sapevamo cosa augurarci: meglio l’usato sicuro di un dittatore conosciuto o una rivoluzione dai tratti misteriosi e forse minacciosi? Ora si lavora per il cessate il fuoco. Purtroppo temo che non sarà immediato. Israele vuole eliminare l’arsenale di Hamas e distruggere i tunnel sotterranei. Prima o poi le armi taceranno. E allora?

Edgar Keret, un grande scrittore israeliano, ha recentemente scritto che parlare di “pace” è molto evocativo ma può essere fuorviante. Meglio parlare di “compromesso”, comunque difficilissimo. La politica è proprio questo: individuare il punto di mediazione più avanzato tra due istanze legittime. Quella degli israeliani a vivere in pace e sicurezza e quella dei palestinesi ad avere un loro stato. Noi riusciremo a smettere di firmare appelli e indire manifestazioni, per aiutare invece i protagonisti a parlarsi?

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