C’è un giudice a Milano, e non ama l’inglese…

C’è un giudice a Milano, e non ama l’inglese…

Sappiamo già che la Storia si verifica prima in tragedia, poi in farsa. Se ripercorriamo quella italiana degli ultimi anni, ci imbattiamo in scontri epici tra politica e giustizia: non solo quelli riconducibili a Silvio Berlusconi, ma anche, per esempio, quelli sui temi eticamente sensibili. Leggi sconfessate dai giudici a proposito di fecondazioni medicalmente assistita, tentativi di legiferare in fretta e furia sul corpo di Eluana Englaro, dispute a colpi di ricorsi e controricorsi.

In questa saga, spesso abbiamo preso le parti dell’uno o dell’altro contendente. Ma soprattutto abbiamo constatato l’ignavia della classe politica. Davanti a urgenze fondamentali mancavano il coraggio e la coesione sufficiente per scrivere buone leggi, quindi interveniva un giudice a colmare il vuoto.

Quello che accade al Politecnico di Milano è un progresso ulteriore. Il mondo della cultura non è in grado di affrontare un problema con i suoi mezzi – riflessione, analisi, elaborazione, discussione – e si rivolge indebitamente a un tribunale, costretto a tagliare con l’accetta una sentenza.

I fatti sono questi. Due anni fa il rettore del Politecnico, Giovanni Azzone, stabilisce di usare solo l’inglese in tutti i corsi di laurea specialistica e nei dottorati di ricerca. Una scelta che dovrebbe favorire gli studenti nella ricerca del lavoro e migliorare la reputazione dell’ateneo in fatto di pubblicazioni scientifiche, relazioni, scambi. Subito si accende una vibrante protesta di molti professori, che gridano allo scandalo culturale. Non so se dietro alla mobilitazione ci sia anche una scarsa conoscenza dell’inglese, così come ignoro se il comportamento del rettore sia stato troppo autoritario. Fatto sta che i professori si rivolgono al Tar che dopo due anni dà loro ragione. Niente inglese al Politecnico. A quel punto la gabbola: il Tar non può intervenire sulle decisioni dei singoli corsi di laurea, che dunque continueranno a essere in inglese sulla base di decisioni autonome l’una dall’altra.

È difficile trovare una rappresentazione più compiuta della rissosità ipertrofica del nostro paese e anche della sua burocratizzazione assurda. Il Tar ormai eletto a “misura di tutte le cose”. Come mi disse una volta un amico, i concorsi pubblici tanto varrebbe farli direttamente al Tar…

Tra professori, non sarebbe stato meglio discutere e ragionare? E sì che il tema sembra davvero molto interessante: si può conciliare un legittimo e sano interesse a sprovincializzare e internazionalizzare (due brutti neologismi) i nostri giovani senza per questo danneggiare la lingua italiana, protetta dalla nostra Costituzione?

Gli studi linguistici recenti mostrano a questo proposito due elementi: non bisogna allarmarsi troppo per l’ingresso in italiano di tanti termini inglesi o di neologismi di origine anglofona, perché queste parole non intaccano la struttura profonda della lingua; al tempo stesso esiste il rischio che l’italiano sia soppiantato dall’inglese in alcuni ambiti fondamentali, perdendo dunque il suo status di lingua universalmente fruibile. È proprio il caso del Politecnico. Se l’italiano dovesse perdere in futuro la sua dimensione scientifica – come già avviene nelle riviste specialistiche – potrebbe gradualmente ritrovarsi in una dimensione genuinamente dialettale. I dialetti, in fondo, sono lingue a tutti gli effetti che però scontano un prestigio minore.

Dunque l’occasione era ghiotta per aprire un dibattito genuinamente culturale, cercare soluzioni creative, insegnare qualcosa ad altri paesi europei alle prese con questioni analoghe. Un’occasione persa. Vuoi mettere il piacere di siglare un bel ricorso al Tar e godersi un bel contenzioso di qualche anno?

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