Quando da bambino avevo paura del nostro rabbino Toaff

Quando da bambino avevo paura del nostro rabbino Toaff

Ieri, noi ebrei di Roma abbiamo perso il Moreno, il nostro Maestro. Ognuno di noi conserva memorie personali e affettuose: ma trovarsi di fronte a Rav Elio Toaff, nostro rabbino capo per mezzo secolo, personaggio di straordinario carisma, a me bambino incuteva anche un po’ di paura.

Il mio primo ricordo risiede nell’abitudine, anno dopo anno, di salutarlo al termine della preghiera di Rosh Ha-shanà, il capodanno ebraico. Dietro a mio padre salivamo i gradini dell’altare e il Rav ci stringeva la mano, gioviale e rapidissimo nella battuta. A me pareva altissimo, anche se non lo era. L’effetto dei libri letti e scritti, ma soprattutto del carattere con cui guidava la nostra comunità.

Ci benedì, sempre sull’altare – altri bambini, mia sorella ed io – in occasione del nostro Benè Mizwà, la maggiorità religiosa. Avevo tredici anni, e stare sotto al suo Talled, lo scialle di preghiera, fu un’emozione intensa, di cui conservo una sensazione densa, quasi tattile.

L’ultima memoria, in ordine di tempo, risale all’ottobre 2001, quando nell’alba di Hoshanà Rabbà (una festa ebraica), di primissimo mattino, annunciò le sue dimissioni. Ancora un po’ assonnati, al centro di quella che era stata la suasinagoga, provammo un senso di spaesamento reso plastico da un silenzio tangibile.

Infine, conservo un’immagine più nascosta: il venerdì sera si andava spesso a casa di mia nonna Tullia per celebrare lo Shabbat, il sabato ebraico: capitava allora che lei si sporgesse dalla finestra sul retro; la sua casa affacciava infatti sullo stesso cortile di casa Toaff, e i due, che ebbero anche momenti di discussione, si auguravano Shabbat Shalom dalla “giusta” distanza!

Gli ebrei di Roma sono affezionati ai ricordi personali, perché la grandezza pubblica di Elio Toaff è nota. Seppe ridare orgoglio a una comunità travolta dalla razzia nazista del 16 ottobre 1943, dalle Fosse Ardeatine e dalla povertà. Seppe tenere insieme la sua gente nei momenti di divisione e negli attimi più drammatici, come il 9 ottobre 1982, quando un commando palestinese sparò e lanciò bombe sulla folla, uccidendo il piccolo Stefano Gaj Taché e ferendo decine di persone.

Seppe essere un grande ebreo e un grande italiano – era stato partigiano – dimostrando che non esiste alternativa tra le due appartenenze, quando ancora nessuno parlava di “identità plurali”. Seppe essere democratico e orgogliosamente sionista, infondendo questo sentimento nei suoi “ragazzi”: raccontò di aver rubato un carro armato nazista nelle campagne modenesi e di averlo clandestinamente spedito in Israele, un peccato di cui non si era mai pentito.

In questo senso, all’Italia rimane forse il rimpianto di non aver celebrato una personalità così significativa con il laticlavio, rendendolo membro onorario di un Senato che se ne sarebbe certamente giovato.

Dal punto di vista religioso, alternò intransigenza e compromesso, come solo un grande Maestro può fare. Gli ebrei di Roma rimpiangono talvolta la sua capacità di rispondere con dei sì, ma rimarrebbero sorpresi nel leggere la lettera che lo stesso Toaff inviò a David Ben Gurion, Primo Ministro israeliano, alla fine degli anni Cinquanta. Da Roma – mostrando un’autonomia oggi difficilmente immaginabile – Rav Toaff si dichiarò contrario alla Legge del Ritorno, già promulgata dallo stesso Ben Gurion, rimproverando il Capo di Stato israeliano con notevole durezza.

Quando gli domandarono perché non si era mai trasferito in Israele, il Morenorispose con un monito consegnatoli da suo padre: un rabbino non abbandona la sua comunità. Maestro, oggi che ci hai lasciati noi siamo certi che non ci abbandoni.

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