La lebbra del 2000 si cura con l’ozono. L’esperienza di due medici italiani

La lebbra del 2000 si cura con l’ozono. L’esperienza di due medici italiani

Quando dici ozono, pensi subito al buco. Origine di tante preoccupazioni ambientali. Pochi sanno, però, che l’ozono è anche un potentissimo battericida che combatte l’ulcera di Buruli, la “lebbra del 2000”: una patologia che provoca piaghe invalidanti e retrazioni cicatriziali che possono condurre alla disabilità o all’amputazione degli arti colpiti. Una malattia che colpisce moltissime persone soprattutto in Africa occidentale, e che è determinata da un micro-batterio inoculato nella cute dal morso di un insetto acquatico presente nelle lagune di molti paesi dell’area.

Ecco dunque l’esperienza di due medici girovaghi di Brescia, Antonella Bertolotti e Marco Capretti, della Onlus Intermed, e a maggior ragione quella del dottor Antonio Galoforo, precursore dell’ozonoterapia in Africa subsahariana. Già, perché l’Italia che va all’estero non sono solo i cervelli in fuga o le multinazionali tascabili alla conquista di nuovi mercati. C’è l’Italia degli scienziati, dei cooperanti e dei volontari che – a volte con un pizzico di incoscienza – si mettono in gioco per aiutare chi soffre in ogni parte del mondo. Un’Italia di piccole storie straordinarie e sconosciute, capace di salvare moltissime vite umane.

La vicenda di Bertolotti e Capretti comincia nel 2006, nel pieno della guerra civile in Costa d’Avorio. Insieme ad altri colleghi provano a installare un’apparecchiatura per l’ozono-terapia in un ospedale di Abidjan, per poi trasferirsi nella località ivoriana di Kokumbo. Ma le macchine sono costose, danneggiate e difficili da maneggiare. Tornati in Italia, l’ozono si rivela prezioso per curare le piaghe di natura diabetica e dimostra ai due clinici l’evidenza delle sue qualità: efficace, economico, indolore, rapidissimo.

Il mal d’Africa però è troppo forte, e così la squadra guidata dai due medici bresciani riparte verso il Benin per curare il Buruli. È tempo di fare un primo salto di qualità: vengono prelevati dei campioni dalle ulcere e – grazie alla collaborazione dell’Istituto di Anatomia Patologica dell’Ospedale Civile e dell’Università di Brescia – si produce un’analisi istologica e molecolare. Il responso arriva dopo dieci giorni: i pazienti trattati per due settimane con la terapia non presentano più il micobatterio responsabile della malattia.

L’ozono non è solo un battericida efficiente ma è facile da usare: basta un piccolo apparecchio – oggi prodotto da una ditta bresciana a un prezzo di favore – che insuffla il gas, attraverso un tubo, in un sacchetto di plastica posto sulla ferita e bloccato da un cerotto. L’applicazione dura circa venti minuti. Essendo indolore, aumenta l’adesione dei pazienti, soprattutto i bambini, alla terapia. Senza dimenticare che l’ozono va comunque usato assieme alle cure antibiotiche consigliate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Il British Medical Journal, forse la più prestigiosa rivista medica al mondo, pubblica questa ricerca e l’OMS invita Bertolotti, accompagnata dalla dottoressa Alma Izzo, al World Buruli Ulcer Meeting a Ginevra nel marzo 2015. Fioccano gli inviti a insegnare questa applicazione dell’ozono in ogni angolo del globo e anche da noi aumentano i centri di ozono-terapia per curare diabetici e pazienti con patologie infiammatorie. Recente l’approdo sul tetto del mondo: dopo terremoto viene impiantato un centro a Katmandu, Nepal. Una piccola grande storia di eccellenza italiana. Ce ne sono. Anche se spesso facciamo di tutto per non vederle.

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