Perché faccio politica (nel mio piccolo) a Roma anche se non mi conviene

Perché faccio politica (nel mio piccolo) a Roma anche se non mi conviene

I miei genitori, i parenti e persino amici e colleghi. Tutti, in questi giorni, mi ripetono la stessa cosa: “Ma ti conviene fare politica a Roma?”. L’immagine della città travolta dagli scandali, dai ladri e dai cialtroni spinge giustamente chi ti vuole bene a metterti in guardia. Perché – è inutile negarlo – oggi la politica è guardata con disprezzo, da chi la pratica; e con diffidenza, da chi non la frequenta ma ne percepisce le logiche perverse. In tutto ciò, Roma – la mia città – sembra essere l’epicentro dello squallore, dell’incapacità di visione e di impegno, la patria degli intrallazzoni, proprio mentre a livello nazionale la politica recupera con Matteo Renzi la sua centralità e una vocazione “egemonica”.

Provo così a rispondere alla domanda che mi viene posta.

Innanzitutto, chi fa politica a Roma lo fa perché gli piace. Non si può spiegare diversamente la scelta di infilarsi ogni giorno nel traffico, subire gli effetti delle buche quando si va in motorino o della frustrazione quando si riscontrano i tanti fallimenti. Se ci penso, non riesco a immaginare un altro tipo di impegno. Perché è vero che ci sono tutte queste difficoltà. Ma è anche vero che non esiste niente di comparabile alla ricchezza di incontrare una persona con un problema serio e alla soddisfazione che si prova se, per caso, quella persona riesci ad aiutarla. Fare politica di “prossimità” è in assoluto una delle cose più belle che si possono fare nella vita.

Poi c’è la responsabilità. Come si fa ad accettare l’idea che questo sfacelo sia ineluttabile? Sarà pure vero che Roma è così fin dai tempi di Giulio Cesare, che il ventre molle della città sopporta meglio la melma che non un cambiamento doloroso e repentino. Ma è pur vero che, al di là dei nostri difetti di romani, la città mostra lacerazioni nel suo tessuto sociale ed economico che meritano di essere affrontate: uno sviluppo costruito sul mattone, sul commercio e sul settore pubblico è stato consumato dalla crisi (irreversibile?) di questi tre settori. E se non facciamo uno sforzo per immaginare un futuro migliore – oltre allo sfruttamento del turismo di bassa qualità -, se non proviamo a costruire qualcosa di diverso, come speriamo che Roma smetta di andare a picco e addirittura inverta la tendenza?

Infine, c’è un problema di “chi”, di classe dirigente. Roma non ne produce da molto tempo, anche perché sono spariti i luoghi dove queste possono formarsi. Il Pd – l’unico partito realmente esistente, l’unico ad avere coraggiosamente affrontato le conseguenze di “Mafia Capitale” – sceglie di non convocare un’assemblea per ragionare sulle dimissioni di Ignazio Marino: scelta sulla quale varrebbe la pena di riflettere – come ha ricordato Roberto Morassut. Senza dimenticare poi di come il Partito Democratico fu costretto a ricorrere, nel 2008, alla candidatura di Francesco Rutelli, esattamente 15 anni dopo la sua prima vittoriosa campagna elettorale. E anche oggi, nella città che abbiamo governato per 17 degli ultimi 22 anni, non sappiamo chi candidare alla guida dopo il disastro dell’amministrazione-Marino. Esiste, certo, una nuova generazione di amministratori locali coraggiosi e onesti, ma il sentimento che prevale tra loro è quello della solitudine, di essere stati abbandonati.

Ma non è solo un problema del Pd. Quale rapporto esiste tra le università romane e la città? Chi ricorda anche un solo scritto davvero illuminante sulle trasformazioni di Roma? Un’analisi sociologica, antropologica, urbanistica sull’Urbe che abbia fornito coordinate imprescindibili? Un testo che abbia saputo “fare” pensiero, coscienza, impegno civico? E del resto, ritengo che il medesimo scadimento nella qualità delle classi dirigenti sia riscontrabile anche tra gli imprenditori e tra i burocrati. Ha ragione allora Francesco Rutelli a rivendicare la sua stagione al governo di Roma come una fucina di leader. È altrettanto vero, però, che quella stagione era evidentemente non più propulsiva già nel 2008.

Insomma, la mia risposta è: fare politica a Roma può essere bellissimo, persino oggi; bisogna alzare lo sguardo per immaginare un altro futuro per la città; per guidare una realtà complicatissima bisogna avere però l’ambizione di essere classe dirigente, nel senso più nobile del termine. E quindi, per prima cosa, studiare. Studiare come espressione d’interesse e come atto d’amore (perché i romani, nonostante tutto, Roma la amano davvero). E solo dopo – in senso positivo – sporcarsi le mani affrontando i problemi.

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