Premessa personale. Ho trascorso la campagna elettorale nel collegio di Ostia e Fiumicino, come candidato in un collegio uninominale senza alcun paracadute.
Un collegio “perso”, nel quale mi sono tolto la soddisfazione di essere votato da 33 mila elettori e di recuperare 5/6 punti percentuali. Un collegio poi effettivamente stravinto dal Movimento Cinque Stelle, che già governano il Municipio di Ostia e il Comune di Roma. Un territorio dove particolarmente duro è stato l’impatto delle inchieste giudiziarie, dello scioglimento per infiltrazione mafiosa, della bassa reputazione del Pd.
Al netto di questi elementi particolari, si è trattato di un’esperienza altamente formativa, e ringrazio Matteo Renzi e la coalizione del centro-sinistra per avermi concesso questa opportunità. Una sfida che ho giocato senza risparmiarmi, anzi dando il massimo che avevo senza badare ai sondaggi e ai pessimisti.
Un cimento bellissimo come solo il collegio può essere (in Gran Bretagna si chiamerebbe “distretto”): rapporto diretto coi cittadini, nessuna competizione per le preferenze o tra i vari simboli poiché si è candidati dall’intera coalizione. Una battaglia bella e giusta, una vicenda locale che mi induce ad alcune riflessioni generali, da approfondire ovviamente nel corso delle prossime settimane, anche in base alle evoluzioni istituzionali e politiche.
Il crollo del PD. Proviamo a essere diretti. Il Pd ha perso dappertutto una valanga di voti, persino nelle zone tradizionalmente “rosse” e in qualche misura intoccabili. La mia sensazione, basata sull’esperienza diretta, è che il problema sia contemporaneamente più profondo e più largo di quanto si voglia raccontare.
A essere agonizzante o già morta non è soltanto la struttura esangue del partito sul territorio – cosa evidentissima già al primo sguardo – ma l’intera costellazione di strutture e reti che in qualche modo faceva perno sul partito: sindacati, associazioni, categorie, cooperative, imprese, comitati, organi di informazione, portatori di interessi e ambienti, personalità.
Non vale solo per il livello nazionale, anzi in basso le dinamiche sono talvolta più nette e veloci. Se si discute con un rappresentante di questi mondi che abbia voglia di essere sincero, sarà egli stesso a dichiarare di non essere più in grado di influenzare con il suo parere il voto tra i propri iscritti, colleghi e collaboratori.
La crisi profonda del centro sinistra è, a livello di diagnosi, quella di un intero mondo. Occorre essere realisti e lucidi. Non si tratta qui di ricostruire genericamente, si parla di rifondare dalla base, dalle fondamenta, dal progetto istitutivo. Uno sforzo che assume il carattere della missione, più che del lavoro. Se c’è qualcuno, verosimilmente della mia generazione, che sente di avere forza e volontà per assumere questo compito, è bene che gli altri semplicemente gli rispondano: coraggio!
Siamo stati arroganti e ignoranti. Molti hanno notato che non ha portato bene al centro sinistra deridere il M5S o i suoi leader, a partire da Luigi Di Maio. Personalmente, l’ho sempre pensato e scritto. Tanto più se questo dileggio assume la sfumatura dello scherno sociale, geografico o accademico.
Del resto, c’è chi anche dopo la sconfitta ritiene utile prendersi gioco di coloro – veri o presunti – che si sono recati nei CAAF per ottenere il reddito di cittadinanza: un atteggiamento miope, talora venato di razzismo e comunque delittuoso per una forza di sinistra.
Ma c’è una colpa di cui mi sento direttamente responsabile, di cui siamo tutti responsabili: noi che ci consideravamo più preparati e più colti, non abbiamo mostrato alcuna curiosità intellettuale, quindi in definitiva nessuna cultura, rispetto all’ascesa del M5S. Nel 2013 una forza a noi sconosciuta, che esibiva modalità spesso detestabili ma certamente ignote, guadagnava circa otto milioni di voti dal nulla, e nessuno di noi si premurò di indagarne strutture, metodi, organizzazione, esponenti.
Ci siamo accontentati di ridurre tutto alla rete, alle gaffes, alla Casaleggio associati e ai social media. Abbiamo commesso un peccato imperdonabile: quello dell’ignoranza. Non abbiamo tentato di comprendere davvero – noi che al momento non abbiamo neanche un’anagrafe degna degli iscritti, per un candidato era impossibile persino contattare con un’email i votanti delle primarie! – come il M5S ha selezionato il suo bacino di riferimento, lo ha tipizzato per area, interesse, classe sociale, lo ha agganciato sulla rete e poi lo ha mobilitato sul campo, unendo parole d’ordine generali a battaglie localissime. E di voti questa volta ne hanno presi quasi undici milioni.
L’illusione del governo. Negli ultimi cinque anni abbiamo governato bene, forse benissimo. Come è possibile, quindi, che il centro-sinistra, e il Pd, abbia ottenuto il suo massimo risultato storico all’inizio di questa fase di governo (Europee 2014), a risultati soltanto promessi, e il minimo repubblicano a valle dei risultati ottenuti? E ancora, come è possibile che lo stesso leader, Matteo Renzi, ci abbia condotto dalle stelle e alle stalle?
Evidentemente i due livelli orizzontali del governo e della politica sono completamente disgiunti. Sotto al piano del buongoverno non ci sono cinghie di trasmissione. E la politica ha bisogno proprio di coltivare quella dinamica, persino al di là della razionalità dei risultati. Non è solo emozione, è politica, cioè investire nella percezione e nella formazione delle persone.
Del resto, anche su questo aspetto abbiamo inutilmente ironizzato: sarà certamente vero che nel M5S uno non vale uno, e che la Casaleggio illude i militanti grillini prendendo decisioni nel chiuso di stanze con poche persone, ma una qualche forma di relazione è perlomeno ricercata, evocata, desiderata.
Il materiale elettorale del Pd elencava invece un centinaio di ottime misure raggiunte dai governi degli ultimi anni, solo marginalmente affiancate da altrettante promesse elettorali. Una narrazione tutta top down francamente poco empatica, per non dire scarsamente leggibile.
Non rappresenta a mio giudizio una contraddizione la bella vittoria di Nicola Zingaretti nel Lazio. Da dirigente avveduto ed esperto quale è, egli ha individuato un’altra strada, evidentemente efficace, per trasmettere verso il basso gli ottimi risultati del suo governo: sono i 204 sindaci sui 378 del Lazio che si sono ufficialmente schierati al suo fianco in campagna elettorale, parlando con le persone degli obiettivi concreti che il centrosinistra aveva raggiunto nella sanità, nel trasporto pubblico, nell’economia regionale, e di quelli ancora da conseguire.
Dateci la linea! Avanzo qui un’ipotesi tutta da contestare. Si è sostenuto che la Lega abbia vinto al Nord per la flat tax e il M5S abbia prevalso al Sud per il reddito di cittadinanza. Di sicuro queste promesse hanno contribuito, ma non ritengo che sia questa la chiave dei due successi.
Se invece tali vittorie fossero figlie semplicemente della presenza sul territorio e dell’organizzazione? La Lega è un partito tradizionale, fatto di iscritti, sezioni, amministratori locali e blocco sociale di riferimento. Il M5S è un impasto ancora largamente sconosciuto, ma ha evidentemente trovato il modo per radicarsi efficacemente e bene.
Non è vero che al Pd mancasse una posizione chiara sulle grandi questioni del nostro tempo – sicurezza, immigrazione, economia, lavoro -, è vero piuttosto che molti esponenti del Pd non sanno più farsi ascoltare dalle persone, considerano interlocutori sbagliati, non conoscono la loro base e non si fanno più vedere nei bar.
Continuano a parlare dei “mercati”, ma non conoscono i centri commerciali dove i clienti sono cento volte più numerosi. Lo ho toccato con mano: le persone che incontri davvero, se sei sincero e disponibile, ti votano con piacere, senza fare troppo caso al tuo partito. Sono in molti a votare per la persona, per le persone.
Cosa fare? Ho già detto che stiamo parlando di una missione (impossibile). Rifondare il centro-sinistra, innanzitutto individuando una modalità diversa di fare politica. Alla luce della desertificazione attuale, ritengo che potremmo ritenerci ampiamente soddisfatti se il nuovo Pd fosse in grado di assolvere dignitosamente tre compiti: formare (in parte) i quadri dirigenti; selezionare i migliori; controllare gli eletti nelle istituzioni.
Ovviamente non è sufficiente. L’attività politica è qualcosa di molto più complesso e nobile, e certamente non può essere rinchiusa all’interno dei circoli del Pd. La mia visione è quella di un’organizzazione flessibile, che sappia collegare in modo virtuoso e rispettoso i molti frammenti di passione civica esistenti: non è vero che non ci siano energie politiche, è vero piuttosto che questi focolai faticano a connettersi tra loro, a elaborare proposte di ampio respiro.
Pertanto, un partito moderno deve trovare il modo di entrare in relazione con questi barlumi di attivismo – come hanno peraltro fatto di 5S -, senza pretendere di pregiudicarne l’autonomia e anche la trasversalità. Coinvolgerli in luoghi di discussione e azione interni ed esterni al partito, dove si possano sentire a loro agio anche i nostri elettori o potenziali elettori che non hanno però nessuna voglia di iscriversi a un movimento politico.
Dunque, una proposta operativa: anziché riempirci la bocca di modelli irraggiungibili – da Obama in giù – proviamo a dotarci di un metodo di lavoro moderno e razionale. La nuova segreteria nazionale deve scegliere tre dirigenti capaci, in grado di coniugare esperienza, passione politica e doti manageriali. Si faccia un vero progetto invece dell’ennesima commissione inutile sulla forma-partito.
Si definiscano bacino di riferimento, target, campioni rappresentativi, investimenti da fare, budget. Si convochino dirigenti, militanti e focus group. Ci si pongano obiettivi concreti e misurabili. Si premino i circoli e i segretari che svolgono un lavoro vero e dimostrabile. E al termine del mandato si valutino i tre dirigenti in questione, per comprendere se hanno costruito le fondamenta della nuova casa, e vanno confermati, o se invece non sono stati efficaci, e vanno dunque sostituiti.
Cosa non fare. A mio giudizio non serve un dibattito sull’alleanza con il M5S. Come hanno già affermato i principali dirigenti del Pd nazionali, massima è la fiducia nel Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e doverosa la responsabilità del partito nel garantire gli assetti istituzionali.
Ma è chiaro che il Pd ha bisogno di stare all’opposizione, perché solo in questa condizione – peraltro abbastanza scontata, visto il risultato elettorale – si può avere il tempo di concentrarsi sulla rifondazione necessaria di cui si è parlato sopra. L’opposizione è un momento necessario e inevitabile della vita politica, la sfida è renderla utile a un nuovo progetto di governo e alla formazione di un nuovo pezzo di classe dirigente.
Infine, si discute di una eventuale nuova legge elettorale. Nel caso, troverei assurdo eliminare dalla nuova legge i collegi uninominali, forse l’aspetto migliore del Rosatellum. Il legame tra territori ed eletti, che costituisce il nerbo delle democrazie mature, fu stroncato dal Porcellum nel 2006.
Prima del 4 marzo, io stesso non avevo mai potuto scegliere il mio parlamentare, e così tutta la mia generazione. Una delle principali cause del decadimento della classe politica in questi anni. Se si cambia nuovamente, si cambi solo ciò che non funziona