C’è un convitato di pietra nella discussione sull’autonomia (differenziata, regionale, amatriciana, etc.). Si chiama Roma. Nessuno ne parla e le due posizioni opposte sembrano rimbalzare da Nord a Sud come palline da tennis, con la capitale a fare da rete in mezzo al campo.
I governatori del Nord, in primis Luca Zaia, reclamano l’entrata in vigore dell’accordo siglato circa due anni fa tra Stato e regioni, e rivendicano l’ampio consenso ottenuto allora nei referendum popolari in Veneto e Lombardia.
L’Emilia-Romagna, prossima al voto, si era a suo tempo accodata, ma al momento pare silente proprio in vista della campagna elettorale. A dire il vero anche la Lega, guidata dall’onnipresente Matteo Salvini e ovviamente in favore della riforma, non pare proprio in assetto da battaglia: forse temendo che un potenziale avversario come Zaia possa intestarsi un simile successo (leggendo le sue interviste, colpisce come non sia mai stato così prodigo di complimenti col leader: tipico di chi teme la fregatura!).
Dall’altra parte c’è uno schieramento piuttosto variegato. Il Movimento Cinque Stelle teme di dissolvere il consenso residuo nel Sud, e comunque non perde occasione per fare baruffa con l’alleato di governo loquace e impetuoso nei sondaggi.
Più seriamente, molti studiosi e osservatori fanno notare che un progetto di riforma di così ampia portata – dalla scuola all’energia alla sanità ai beni culturali – minerebbe definitivamente la già fragile unità nazionale, predicata dalla Costituzione ma così poco reale.
Su Roma, come si diceva, tutto tace. Eppure sarebbe proprio questa la chiave di volta per tenere assieme due sfide così alternative ma anche complementari: l’ambizione del Nord a stare al passo con l’Europa e l’eterna questione meridionale.
Solo riconoscendo alla capitale un statuto speciale, che ne definisca oneri e onori, e mettendola al centro di un disegno complessivo, risulterebbe credibile un progetto di riforma che altrimenti rischia di rivelarsi deleterio e ingiusto.
L’Italia non può permettersi di perdere il Sud. Ma non può neanche permettersi di frustrare le attese del Nord. E quindi è giusto procedere in un percorso federale, purché la riflessione sia organica e onesta. La corruzione non c’è solo nelle regioni del Sud, l’autonomia non è necessariamente dannosa se immaginata con equità e responsabilità.
La mia modesta proposta è questa: governo e parlamento mettano mano a una legge organica su Roma Capitale – dopo quella del 1990, quella nefasta emanata dal Governo Berlusconi e quella mai approvata del cosiddetto “Salva-Roma”.
Nell’economia globale le città giocano un ruolo sempre più importante, ed è difficile che un paese possa prosperare mentre la sua capitale affonda. Lo comprendono tutti gli italiani, che pure intrattengono un rapporto ambivalente con Roma, fatto di ammirazione e diffidenza.
Lo capiscono forse meno i romani, che ormai rassegnati al disastro di Virginia Raggi si limitano a lamentarsi – giustamente! – delle buche e dell’immondizia per strada.
Se si vuole davvero programmare il futuro dell’Italia nel solco della Costituzione e dell’unità nazionale, si parta allora dalla capitale, e da ciò che questa rappresenta a livello identitario e culturale.
L’alternativa, lo sappiamo, è una sola e terribile: da un lato, spaccare ulteriormente il nostro paese; dall’altro, rassegnarsi a fare ciò che fece Gianni Alemanno, forse l’unico sindaco peggiore dell’attuale: trasformare Roma Capitale in una questione di carta intestata.