Mobilità sostenibile: la città 5.0

Mobilità sostenibile: la città 5.0

Sono in molti ad attribuire a Margaret Thatcher, a lungo Primo Ministro britannico, un aforisma che probabilmente non pronunciò mai: “Se hai più di ventisei anni e prendi ancora l’autobus, considerati un fallito!”. Vera o falsa che sia la sentenza, ci suggerisce due commenti: a Londra, proprio dove la “Lady di ferro” esercitava la sua leadership, il tasso di ricorso al trasporto pubblico si aggira oggi attorno al 37%, quello relativo alla ciclo-pedonalità al 26%, e l’uso del mezzo privato è ormai ridotto a poco più di un terzo del totale. Ciò contribuisce a rendere questa metropoli una delle più attrattive al mondo. Negli ultimi trent’anni, inoltre, la percezione è radicalmente cambiata non solo a Londra, e in particolare tra i giovani: la proprietà dell’automobile non è più vista come uno status symbol da perseguire; le opzioni per muoversi si moltiplicano, favorendo efficienza e divertimento (si pensi al boom di monopattini e affini); la riduzione dell’inquinamento è un’urgenza imprescindibile per la sopravvivenza stessa del pianeta; gli stili di vita evolvono, inducendo ad esempio le nuove classi di “creativi” americani (i cosiddetti “HENRY”, High incomers not rich yet) a trasferirsi in città dai sobborghi, per girare a piedi e avere a disposizione ufficio, servizi di base e svaghi in poche centinaia di metri.

Se una città vuole essere “globale” o “intelligente”, quindi, deve aggiornare le proprie priorità. Il successo economico o la potenza delle infrastrutture non sono più sufficienti. Per attrarre forza lavoro qualificata occorrono certamente opportunità di carriera, ma non possono mancare esperienze culturali, novità gastronomiche, nuance multietniche e distrazioni di ogni tipo. E, naturalmente, un sistema diversificato per muoversi velocemente, comodamente e senza inquinare. In una formula, una mobilità sostenibile.

Dal “trasporto pubblico” alla “mobilità”

Fino a pochi anni fa, per valutare l’efficienza di un contesto urbano in questo ambito bastava valutarne la qualità del trasporto pubblico. Le reti su ferro e gomma costituivano l’unica alternativa all’automobile privata, e d’altra parte bastava impiantarne un numero abbondante per considerarsi una città moderna. Poi tutto è cambiato. Il punto di vista ha traslocato dallo sguardo “largo” dell’amministratore pubblico, preposto a pianificare il sistema, a quello “stretto” ed esigente dell’utente, tutto concentrato sulla sua user experience. Grazie all’economia delle piattaforme, i cittadini possono scegliere temporaneamente un’automobile grazie al car sharing, condividerla col pooling, oppure ancora passare dalla bicicletta al monopattino al motorino all’automobile (“intermodalità”), senza possedere nessuno di questi mezzi: semplicemente in base al proprio bisogno del momento o magari alle previsioni del meteo. Le opportunità di business sono notevoli, se pensiamo al numero delle aziende multinazionali coinvolte ma anche, per esempio, al successo del car sharing a Roma, che certo non brilla per mobilità sostenibile. Ma la concorrenza è spietata: nel mondo non mancano esempi di gestori di bike sharing che hanno abbandonato precipitosamente questa o quella città, lasciando dietro di sé cumuli di macerie a due ruote.

Questa rivoluzione ha avuto, e continua ad avere, una conseguenza ulteriore: ogni persona invia un’immensa mole di dati, prodotta e rimbalzata dagli smartphone di cui siamo contemporaneamente impulso e appendice; questi dati forniscono una quantità impressionante di informazioni sui costumi e i bisogni di abitanti e pendolari, rendendo in prospettiva il sistema della mobilità enormemente più efficiente. Nel “Senseable Lab” del MIT guidato dall’italiano Carlo Ratti, per esempio, si sono messi a studiare il traffico dei taxi a New York attraverso un ricorso abbondante ai sensori: ne è venuto fuori, come prevedibile, che la gran parte dei mezzi corre a vuoto per le strade e si riempie al massimo con un passeggero ogni corsa. Quanto traffico e quanto smog verrebbero ridotti se fossero sfruttati i dati che abbiamo a disposizione? Del resto, come è noto, le automobili private in città rimangono parcheggiate per il 95% del tempo, e molti sostengono che più che preoccuparci dello spazio esterno all’automobile, i problemi della congestione urbana e dell’inquinamento atmosferico andrebbero affrontati con una più lungimirante gestione del suo spazio interno.

Una recente indagine di McKinsey ha provato a sintetizzare questa nuova concezione in cinque dimensioni complessive che definiscono e qualificano la mobilità urbana: accessibilità, costo, efficienza, convenienza/comodità e sostenibilità. Questi parametri attraversano il sistema della mobilità in senso cronologico (prima dello spostamento, durante e dopo) e in senso orizzontale, evidenziando punti di forza e limiti sia del trasporto pubblico sia di quello privato. Secondo questi indicatori, le tre città migliori per mobilità a livello globale sono Singapore, Parigi e Hong Kong, mentre Milano con la sua provincia conquista una onorevole decima posizione. Lo studio introduce un altro spunto di riflessione: spesso non c’è corrispondenza tra la qualità del sistema di mobilità secondo la misurazione scientifica e la percezione degli utenti. Traffico e mezzi di trasporto sono un tema estremamente sensibile perché influenzano la vita delle persone: a Roma si perdono 254 ore all’anno in media per via degli ingorghi, mentre a Milano questo dato si riduce a 226. Gli amministratori locali devono affrontare questa emergenza ma temono giustamente le reazioni al cambiamento; i cittadini sono spesso giustamente esasperati da attese e disservizi, ma non sempre sono del tutto obiettivi.

Dall’auto elettrica ai veicoli a guida autonoma

Nel dibattito pubblico, auto elettrica e autonoma tendono spesso a sovrapporsi. A ben vedere, però, conviene considerare questi due trend in maniera organica ma parallela. Prendiamo ad esempio Tesla, probabilmente la più nota tra le industrie automobilistiche che producono mezzi elettrici: nonostante Elon Musk, il suo fondatore, sia obiettivamente un eccentrico visionario, il modello di business dietro alle tre vetture oggi in vendita è abbastanza tradizionale. Il veicolo viene acquistato dall’utente che ne assume la proprietà; il guidatore mantiene la propria responsabilità nel corso della guida; l’auto si ferma a un livello di automazione 2/3 in una scala convenzionalmente definita tra 2 e 5. Ragioniamo invece di Waymo (Google), l’azienda forse più nota nel settore dell’automazione: nella sua ottica, l’automobile non ha più un proprietario ma fornisce un servizio in sharing; il computer sarà responsabile per il processo di guida in ogni situazione e dunque il mercato assicurativo verrà rivoluzionato; l’obiettivo a cui tendere è una completa automazione (livello 5). Secondo gli esperti, il livello 4 sarò davvero raggiunto nel 2022 mentre quello finale non prima del 2030, un traguardo comunque molto ravvicinato.

Alla luce di questa disamina, come sarà influenzata la mobilità da questi due modelli industriali?

L’elettrificazione del mercato automobilistico, un trend già in atto, dà luogo a una competizione serrata tra produttori, e richiede sempre più un’infrastruttura di ricarica diffusa e pubblico-privata e, a fronte di questo sforzo, consentirà una riduzione e fin quasi una cessazione delle emissioni inquinanti. Un recente studio della rappresentanza olandese in Italia ha fornito un quadro d’insieme del mercato europeo e italiano: nel nostro paese lo 0,3% delle automobili è ibrido (trascurabile la componente solo elettrica), come in Germania, a fronte dello 0,8% in Francia, l’1% in Gran Bretagna e addirittura il 2,8% nei Paesi Bassi. Le automobili ibride immatricolate nel 2018 sono state poco meno di 10 mila, contro le 45mila in Francia, 60mila in Gran Bretagna e quasi 70 mila in Germania, anche se la tendenza appare un po’ più decisa per quanto riguarda i mezzi del trasporto pubblico. Da ultimo, alla fine del 2017 erano presenti in Italia 2.741 stazioni di ricarica pubbliche (oltre a circa 7.000 private), cresciute notevolmente dalle 616 del 2011. Solo nel 2018, in Europa sono state installate 70.000 stazioni di ricarica pubbliche e circa 400.000 private, più o meno un terzo del totale globale. Insomma, un mercato in forte espansione.

Ma è con la rivoluzione automatica che lo scenario potrà trasformarsi definitivamente: i veicoli a guida autonoma saranno connessi tra loro e a un sistema operativo centrale (pubblico, pubblico/privato, urbano ecc.), e grazie alla lettura sistematica e sincronica dei dati potranno eliminare gran parte delle inefficienze dell’attuale sistema di mobilità urbano: via le auto parcheggiate, basta con i passeggeri solitari, basta con gli incidenti (!?); sì allo sharing sistematico, all’integrazione col trasporto pubblico tradizionale e all’intermodalità. Affinché tutto ciò funzioni, sarà necessaria una pianificazione urbanistica e multi-disciplinare, che ripensi il concetto di strada, che favorisca la riqualificazione dello spazio pubblico liberato dalle auto, che consenta agli utenti di spostarsi comodamente grazie a un sistema di “fermate” per i vari sharing. Una sfida appassionante e piena di incognite, se pensiamo che già un secolo fa, nei quadri dipinti dai pittori delle Avanguardie storiche, si profetizzavano veicoli volanti e senza pilota, e che invece l’automobile si è rivelata un oggetto particolarmente resistente alle trasformazioni nonostante la rivoluzione tecnologica.
 

Uno sforzo di immaginazione

Il 14 luglio 2019, nel corso della consueta parata militare sugli Champs-Elysées, l’attenzione della folla è improvvisamente catturata da qualcosa che si libra nel cielo più controllato del mondo, un essere umano eretto e sospeso sulle loro teste. Si chiama Franky Zapata e, anche se non si riesce a vedere, i suoi piedi poggiano sul “Flyboard” da lui medesimo brevettato: una minuscola piattaforma dotata di cinque turboreattori e in grado di raggiungere la velocità di 190 chilometri all’ora. Il 25 luglio lo stesso Zapata prova ad attraversare la Manica, ma fallisce; pochi giorni dopo, il 3 agosto, l’uomo riesce a superare i 35 chilometri che separano la costa francese da quella inglese, volando a 15/20 metri sull’acqua, e sostituendo a metà percorso il combustibile contenuto nel suo zaino, necessario per supplire al serbatoio minuscolo. Non vogliamo commettere lo stesso errore dei futuristi a inizio Novecento, ma come si può escludere che tra qualche anno saremo in tanti, nelle nostre città, a inforcare un “Flyboard” e schizzare da un punto all’altro gustando l’ebrezza leggera della libertà?

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