Global City: la grande competizione tra Città e Stato

Global City: la grande competizione tra Città e Stato

Secondo i calcoli di Richard Florida, il Pil prodotto nel 2015 dalle prime dieci città del mondo era superiore a quello aggregato di Germania e Giappone. Tokyo sarebbe quindicesima nella classifica tra gli stati del mondo, subito sotto la Corea del Sud. L’economia di Londra sarebbe comparabile a quella dell’Olanda, e Parigi sarebbe più ricca dell’intero Sud Africa. Del resto, anche per Eurostat il Pil delle due metropoli europee supera quello di Belgio, Austria, Danimarca, Irlanda e Ungheria. Non occorre essere uno storico o un economista per comprendere il peso di questi numeri: sono talmente macroscopici da indurre de facto una competizione per il potere tra Stati e Città. Uno scenario per certi aspetti imprevedibile, sebbene la storia sia costellata da scontri tra centro e periferia come pure dai tentativi degli stati nazionali di porre un freno al dinamismo e all’autonomia dei Comuni.

 

Il ritorno delle Città-Stato

Secondo il politologo indo-americano Parag Khanna si può dunque ben parlare di “ritorno delle Città-Stato”entità a suo dire più efficienti degli stati (l’esempio da lui preferito è quello di Singapore) – e dunque in grado di interpretare meglio i processi complessi dell’economia globalizzata, nonché di gareggiare in maniera flessibile sui fronti caldi dell’innovazione tecnologica e dell’attrazione dei talenti. Né mancano visioni che attribuiscono alle città un ruolo virtuoso nel clima politico turbolento che viviamo: dal classico “If mayors ruled the world. Dysfunctional Nations, Rising Cities” di Benjamin Barber, al più recente “The New Localism: How Cities can thrive in the Age of Populism” di Bruce Katz e Jeremy Nowak. Per questi pensatori, le città rappresenterebbero un sistema di valori più utile di quelli nazionali alla definizione di un nuovo paradigma di sviluppo sostenibile: aperto (le città non hanno confini “esclusivi” come gli stati), orizzontale, collaborativo, pragmatico, iterativo.

 

Un mondo di contraddizioni e diseguaglianze

Ma non è tutto oro ciò che brilla. Sebbene le città coprano soltanto il 2% della superficie terrestre, vi risiede circa il 54% dell’umanità. Le aree urbane producono attorno al 60% delle emissioni di gas serra globali e consumano un’analoga percentuale di energia, mentre dismettono il 70% dei rifiuti solidi totali. Tutti numeri destinati a crescere nei prossimi anni all’aumentare della popolazione cittadina e alla crescita ulteriore della loro ricchezza (già oggi nelle città si produce il 70% circa del Pil globale). Con un’aggravante: le diseguaglianze sociali non sono solamente esterne alla città, cioè in rapporto alle zone rurali, ma anche e soprattutto interne. Per sostenere le vite di professionisti e manager, o delle cosiddette “classi creative”, occorre un esercito di lavoratori sotto-pagati e sotto-qualificati, sovente stranieri, spesso segregati, la cui distanza dal vertice è ancora più abnorme rispetto a quella che separa città e aree periferiche. In sintesi, le città sono il perno dello sviluppo mondiale ma anche l’essenza delle sue contraddizioni e diseguaglianze.

Ciò pone un problema per le politiche nazionali: chi si sente tagliato fuori dai processi di sviluppo radicalizza le proprie posizioni e tende a rifugiarsi nel voto di protesta. Basta osservare la mappa del voto al referendum inglese sulla Brexit (giugno 2016), o quella delle presidenziali americane (novembre 2016), ma anche quella delle Politiche italiane del 4 marzo 2018. I cosiddetti “forgotten men”, residenti in quelle zone che gli americani definiscono “fly-over State”, influenzano le scelte fondamentali dei paesi, e persino le opzioni geopolitiche, in una logica comprensibilmente oppositiva, mentre le global city tendono a confrontarsi da pari a pari con le altre metropoli del mondo, aggirando i confini degli Stati e gli equilibri tradizionali.    L’apertura dei mercati – e l’Unione europea non fa eccezione in questo senso –  ha inoltre finito spesso per penalizzare le aree del globo che ancora nel Novecento riuscivano a farsi “proteggere” delle politiche nazionali, esacerbando il senso di esclusione.

 

Battaglie “glocali”

In questo contesto così complesso le priorità tra Stati e città tendono a divergere creando conflitti latenti o espliciti. Si pensi al movimento dei Climate Mayor americani, che si oppongono alle politiche ambientali di Donald Trump e si impegnano a implementare a livello locale il mandato dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. Centinaia di sindaci USA (erano 438 alla fine del 2019) che si confrontano sulle pratiche migliori e si riuniscono nei network internazionali come per esempio il “C40 Cities”, fondato dall’allora sindaco di New York e ora candidato alla presidenza Mike Bloomberg. Ma si tengano a mente anche le molte città che negli USA – in una tradizione che comincia negli anni Ottanta e si rifà all’esperienza religiosa – si rifiutano di mettere in pratica le norme restrittive sull’immigrazione clandestina e si proclamano Sanctuary cities”, ovvero luoghi che tutelano la persona sprovvista di documenti e non la denunciano alle autorità federali. A questo proposito è interessante notare come simili iniziative non nascano per ragioni politiche, ma da constatazioni di sicurezza: è più complesso garantire l’ordine se intere comunità o quartieri urbani si eclissano per la paura di essere presi e denunciati (un’altra questione che mobilita i sindaci americani in tema di sicurezza ha portato all’istituzione del network “Mayors against illegal guns”). Ma anche i sindaci italiani si sono fatti sentire alla fine del 2018 contro i cosiddetti “decreti-sicurezza” in tema di accoglienza e gestione dei migranti, sostenendo che la riduzione dei fondi per l’integrazione si sarebbe alla lunga trasformata in un rischio per i cittadini.

Come si vede, viene a formarsi una divaricazione sempre più incolmabile tra le preoccupazioni di quanti vivono nelle aree più disagiate e le popolazioni urbane, percepite come un élite di privilegiati, che si concede il lusso di pensare al cambiamento climatico mentre consuma e all’accoglienza dei migranti che poi “rinchiude” nei ghetti urbani.

Un ambito ulteriore che vede alcune città contrapporsi agli stati, sebbene sotto forma di surroga più che di vero e proprio conflitto, è quello dell’Agenda 2030, ovvero i 17 obiettivi di Sviluppo Sostenibile approvati dall’Onu alla fine del 2015. Recentemente, alcune città globali di primaria importanza, a cominciare da New York (ma anche Buenos Aires, Durban, Helsinky, Kitakyshu, Los Angeles, Medellin, Pittsburgh, Rio de Janeiro, Milano e altre) si sono lanciate in un esercizio particolare: la “Voluntary Local Review”. Con questa formula esse si pongono programmaticamente sullo stesso piano degli stati nazionali, imitando la revisione periodica che questi dovrebbero compiere sull’implementazione dell’Agenda, e allestendo uffici per le relazioni internazionali che assumono le sembianze di ministeri degli Affari esteri in sedicesimo. Così facendo – per di più mentre alcuni paesi scelgono di fare un passo indietro rispetto agli impegni presi – le grandi metropoli del mondo si candidano a essere attori globali più responsabili ed efficienti delle nazioni di appartenenza, e in ogni caso le superano per protagonismo.

 

Appunti sul futuro: città più protagoniste sulla scena internazionale

Tutte queste circostanze introducono una serie di domande sul futuro: che ruolo si ritaglieranno le città, e in particolare le grandi global city, nei processi decisionali? Che conseguenze politiche avrà questa partita? Quali sono le sfide da affrontare?

In primo luogo, l’architettura delle istituzioni internazionali potrà evolvere nel senso di una maggiore inclusione delle metropoli del mondo. Già oggi si parla di multi-stakeholder diplomacy o di city-to-city diplomacy. Per rendere queste innovazioni produttive, andranno individuati gli ambiti politici in cui gli stati devono necessariamente mantenere prerogative esclusive (per esempio nel settore della Difesa, che anzi andrà sviluppandosi nell’ottica della cooperazione regionale), e quelli dove il coinvolgimento delle città potrà essere effettivo e vincolante. Queste reclameranno un “posto al tavolo” delle decisioni, e sarebbe lungimirante definire sedi e modalità di deliberazione efficaci.

Secondariamente, non si può escludere che il protagonismo politico delle città si spinga oltre la linea rossa della collaborazione fattiva. Abbiamo già visto come qualcosa del genere stia accadendo in alcuni campi cruciali – ambiente e immigrazione -, ma alcuni segnali sembrano indicare una tendenza verso scelte di politica più generale: è il caso, per esempio, dei quattro sindaci di Bratislava, Budapest, Praga e Varsavia – le quattro capitali del cosiddetto blocco di Visegrad – che hanno sottoscritto un patto programmatico di cooperazione improntato ai valori dell’apertura e dell’inclusione, in chiara opposizione alle politiche nazionali degli stati di appartenenza. Ma è forse anche il caso di figure come Ekrem Imamoglu, neo-sindaco di Istanbul osteggiato con ogni mezzo da Recep Tayip Ergogan (anch’egli già sindaco della città), che più di ogni altro sembra oggi incarnare l’alternativa al regime turco.

Infine, non è possibile ignorare un’emergenza globale connessa a quanto spiegato in premessa. Se le città ricoprono una percentuale minima della crosta terrestre, e concentrano però in sé persone, beni, servizi e contraddizioni, non è immaginabile un mondo che ignori la grandissima parte del territorio circostante, in favore di un conglomerato sempre più spaventoso di megacities sulle fasce costiere. Occorre un impegno globale per tutelare le aree agricole, periferiche e montane, e per sostenere socialmente le popolazioni che vi risiedono. Senza assumere questa prospettiva, pare impossibile garantire una salvezza ecologica al nostro pianeta, come pure progettare uno sviluppo sostenibile per ogni donna e ogni uomo, che viva in città oppure no.

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