Le immagini di alcuni ospedali di Madrid, con i malati stesi per terra tra asciugamani e coperte, rischiano di essere il tragico presagio di ciò che attende il mondo nei prossimi giorni. Mentre l’Italia gioca la sua partita più importante, cioè quella a difesa di Milano (e del Mezzogiorno), città come Londra, Parigi e soprattutto New York potrebbero trasformarsi nei focolai più incontrollabili del Covid 19. Le drammatiche sequenze che abbiamo visto a Bergamo, Brescia e in altri centri del Nord non sono in contraddizione: se il Coronavirus dilaga nelle grandi metropoli l’epidemia si rivelerà una catastrofe persino peggiore.
Se poi, per ipotesi malaugurata, scoprissimo che il virus non è un’onda anomala da sconfiggere una tantum con cure e vaccino, ma piuttosto il principio di uno sciame che – a fasi alterne e magari con una parabola discendente – proseguirà per alcuni mesi o anni, sarà opportuno porsi tre domande circa l’influsso della pandemia su città sempre più globali: 1) Che impatto avranno il Coronavirus e gli eventuali epigoni sui trend di urbanizzazione? 2) Quale effetto avrà l’epidemia su popolazioni già molto polarizzate dal punto socio-economico? 3) Infine, che ruolo giocherà la tecnologia nel controllo del contagio, e che tipo di paradigma urbano ne verrà fuori?
Si tratta di semplici spunti di riflessione, poiché in questo momento pare davvero impossibile formulare previsioni.
La fine di un “sogno”?
Com’è noto, dal 2008 più di metà degli esseri umani nel mondo risiede in contesti urbani. Una novità assoluta nell’intera storia della nostra specie. I “cittadini” sono oggi circa il 55% sulla popolazione totale, e secondo alcune stime questo dato crescerà fino al 70% entro il 2030. Detto in altri termini, negli ultimi anni più o meno due o trecento mila persone al giorno si sono trasferite dalla montagna, dalla campagna o dalle aree periferiche verso i centri abitati. Diciamo un centinaio di persone da quando avete iniziato a leggere questo articolo. Un’attrazione irresistibile. Sebbene spesso in condizioni spaventose, trasferendosi in città c’è la speranza di poter accedere a un’opportunità grazie a un sistema economico più vasto e più dinamico. Se prendiamo, per esempio, il campione dei migranti internazionali, le statistiche ci spiegano come questi preferiscano le aree urbane: più lavoro, più reti di protezione comunitaria, più occasioni. Ma vale anche per le “classi creative” o per i lavoratori molto qualificati.
Sarà ancora così nei prossimi anni? Nelle scelte delle singole persone, come pure nelle narrazioni collettive e nei valori consolidati dal marketing, le downtown rimarranno il cuore pulsante delle nostre società oppure – grazie allo smart working – chi avrà i mezzi preferirà spostarsi in sobborghi residenziali, assai meno densi e potenzialmente più salubri? Si arresterà il flusso di inurbati come in queste settimane si è rallentato l’esodo dei migranti verso il nostro paese? Si accentuerà forse una scissione generazionale, con le persone anziane e più fragili dirottate in aree periferiche, e una massa di potenziali contagiati giovani e asintomatici che riprendono il tran tran quotidiano in mezzo alla selva di grattacieli?
La ripresa può perpetuare le diseguaglianze, ma il virus è più “democratico”
Alcune città nel mondo (Buenos Aires, Durban, Helsinky, Kitakyshu, Los Angeles, Medellin, New York, Rio de Janeiro) si sono recentemente lanciate in un esercizio ambizioso: la definizione di Agende locali per lo Sviluppo Sostenibile, in modo da calare gli obiettivi ONU in vista del 2030 nella realtà e nelle problematiche locali. Esperimenti importanti non soltanto per l’impatto concreto delle policy, ma anche per il messaggio di ownership verso i cittadini: ognuno di noi è protagonista nella sfida per un mondo più sostenibile e più giusto. Ed ecco che arriva lo tsunami-Coronavirus. Sarà la tomba dello Sviluppo Sostenibile a livello locale? La risposta non può essere definitiva: dipende da come viene arginata l’epidemia oggi e come verrà impostata la ripresa domani.
Prendiamo il caso di New Orleans, devastata nel 2005 dall’uragano Katrina. Una prova clamorosa dell’inefficienza della macchina pubblica, dell’insipienza della politica (all’epoca era presidente G. W. Bush, ma non è escluso che Donald Trump lo superi in negativo nella gestione del Coronavirus) e della terribile segregazione che affligge la società americana. Dopo il disastro – prima minimizzato, poi subìto… vi ricorda qualcosa? – la città della Louisiana è stata inondata di fondi pubblici. Sono stati spesi bene? Secondo studi recenti i poveri, generalmente afro-americani, sono diventati ancora più poveri. Se ci fosse un altro tifone gli stessi quartieri verrebbero spazzati via. Persone che non potevano fuggire allora sono penalizzate oggi: salari bassi, educazione scadente, delinquenza alta. Insomma, la sciagura ha insegnato poco e niente: sembra addirittura che circa cento mila studenti abbiano abbandonato gli studi dopo il disastro, rinunciando a un futuro migliore.
Ma il virus – ecco il punto – è più “democratico” di un uragano. Quest’ultimo risparmia le case in muratura e distrugge le baracche costruite con materiali di risulta. Il Covid 19 no. Certo, è ben diverso stare in isolamento in una casa grande anziché in uno spazio angusto; possedere un’automobile o dover ricorrere ai mezzi pubblici; disporre di assistenza psicologica o essere vittime di violenza domestica (in Italia sono crollate le denunce da parte delle donne, che non possono lanciare l’allarme con i mariti in casa); avere i mezzi per pagarsi le cure o dover soccombere a un sistema sanitario iniquo (che negli USA potrebbe provocare perdite immense). E tuttavia, nessuno può dirsi al riparo dal contagio: senza occuparsi dei senzatetto che affollano le mense, o dei quartieri super-densi e privi di servizi sanitari decenti, o dei carcerati, o delle strutture per anziani o persone non autosufficienti, neanche i più benestanti saranno davvero al sicuro. Senza ri-progettare una città che includa questi “focolai” in un paradigma di sviluppo sostenibile, il futuro sarà per tutti decisamente più minaccioso. Saremo in grado di capirlo?
Cittadini sotto sorveglianza o smart citizen?
Lo storico israeliano Yuval Harari ha pubblicato alcuni giorni fa un lungo articolo sul “Financial Times”. Ragionando di Coronavirus, lo studioso propone due alternative radicali nella gestione dell’emergenza: sorveglianza tecnologica vs. empowerment dei cittadini; isolazionismo nazionale vs. cooperazione internazionale. A ben vedere, le città si collocano, per ragioni differenti, al centro di entrambe le alternative.
Sappiamo perfettamente che le global cities tendono a essere più aperte degli Stati nazionali, e a incentivare soluzioni cooperative con altre metropoli. In un libro di alcuni anni fa (“If Mayors ruled the world”) Benjamin Barber sosteneva che un mondo dominato dai sindaci sarebbe stato più pacifico ed efficiente, dal momento che questi rispondono alle esigenze quotidiane dei cittadini, il che li porta a essere più pragmatici e meno conflittuali. A ben vedere, la stessa ipotesi può essere formulata a proposito del Coronavirus: se gli Stati possono scegliere tra la strada della competizione e quella della cooperazione (per esempio in materia di approvvigionamento del materiale sanitario), le città non hanno questa alternativa. L’urgenza dei problemi richiede concretezza, e di mutuare good practice da altre esperienze. Come il virus si muoverà a salti tra città connesse da flussi di merci, persone e servizi, anche le policy anti-virus si perfezioneranno nella collaborazione proficua tra comunità locali, destinata dunque ad aumentare.
Più complessa la questione della tecnologia. Già da molti anni il concetto di smart city ha perso smalto se inteso nella sua accezione esclusivamente tecnologica. Ci si è resi conto, infatti, che non basta disseminare le città di sensori, telecamere intelligenti, droni e applicazioni per rendere effettivamente migliore la vita delle persone. L’enorme massa di dati che produciamo va gestita in maniera da non ledere i diritti democratici, e non avvantaggiare solo le grandi aziende del digitale che sfruttano le informazioni a fini commerciali. Casi come Amsterdam e Barcellona hanno fatto scuola: i concetti di “sovranità digitale” e “City data commons” si sono tradotti in esperimenti di piattaforme aperte, software libero e open standard sotto il controllo pubblico. Le amministrazioni locali più virtuose hanno elaborato piattaforme per incrementare la partecipazione dei cittadini al processo decisionale, e aumentare l’accountability della PA (ancora Barcellona, ma anche, per esempio, Madrid). Il Parlamento europeo, poi, ha proposto una ridefinizione di smart city articolata in sei ambiti: governance, economy, mobility, environment, people e living.
Su questo dibattito ormai consolidato si innesta perfettamente il dilemma del Covid 19. Si parla di modello Wuhan, modello coreano, israeliano, forse persino italiano. Ma come rileva Harari la questione è semplice e drammatica: consentire al potere centrale di controllarci così bene da evitare la diffusione del contagio? Monitorarci in modo inedito, osservando cioè non solo i nostri comportamenti (digitali) ma le reazioni interne al nostro corpo (temperatura, biochimica, ecc.)? O invece rinunciare alla tecnologia e così abdicare al contagio di massa?
Su questo crinale si trova forse il punto di sintesi attorno al quale dovremo plasmare la città del futuro. La smart city cui tendere non sarà un immenso Leviatano in grado di spiare tutti i suoi cittadini per curarli, ma anche per influenzarne scelte, comportamenti e stili di vita. Sarà piuttosto – c’è da augurarselo! – un ibrido di tecnologia, responsabilità collettiva e buone pratiche artigianali. Un organismo flessibile, capace di isolare e poi riaprire spezzoni del tessuto urbano a seconda dei movimenti del virus, e grazie alla collaborazione delle persone (ecco il test, trace and treat oppure, più evocativo ancora, il “martello e danza”). Un sistema in grado di prevenire e combattere il morbo, ma anche di garantire privacy e diritti ai suoi (sempre più) smart citizen.
Un dilemma politico
Non manca infine una questione squisitamente politica. La crisi economica non colpisce tutti con la stessa intensità, e soprattutto i diversi territori non recuperano alla medesima velocità. Il dilemma potrebbe dunque essere: investire subito sulle global cities come catalizzatori della crescita nazionale – pur sapendo che ne avrebbero meno bisogno – o concentrarsi invece sui territori più periferici, che rischiano di essere irrimediabilmente travolti dalla recessione post-pandemia?