Secondo il politologo indo-americano Parag Khanna, due sono le tendenze fondamentali del XXI secolo: l’urbanizzazione crescente e l’ascesa dell’Asia come perno di un nuovo assetto geopolitico globale. In questa duplice ottica, la Cina è certamente attore protagonista, ma non va trascurato il ruolo di grandi paesi come India, Giappone e Indonesia, o di realtà più piccole come Thailandia, Corea del Sud e Singapore. In che modo l’esplosione del Coronavirus, originata in questa parte del mondo, cambierà lo sviluppo delle città nel continente che cresce?
Per rispondere a questa domanda, occorre definire le questioni principali. Se ne possono proporre quattro:
- la funzione geopolitica della Global City;
- il paradigma urbano cinese;
- la città nell’epoca della pandemia;
- l’emergenza ambientale e climatica.
Come si vedrà, ognuno di questi ambiti di analisi è influenzato profondamente dalle grandi strategie internazionali della Cina, innanzitutto la Belt and Road Initiative (BRI), che mira a collegare Pechino con l’Europa e l’Asia.
La funzione geopolitica della Global City
Negli anni recenti il dibattito sulle città si è basato su una consapevolezza di fondo: le realtà urbane hanno oltrepassato la dimensione di comunità locali per assumere una rilevanza geopolitica. Per un verso, ciò è avvenuto a causa della stazza sempre più significativa delle loro economie[1]; per l’altro, vista la centralità assunta da alcune grandi Global City in sfide decisive del nostro tempo, dalla lotta ai cambiamenti climatici alla gestione delle migrazioni. Abituate a interagire in network sempre più influenti, le città hanno assunto un atteggiamento dialettico nei confronti degli Stati di appartenenza, e talora vi si sono addirittura contrapposte. La dinamica del potere sembrava muoversi contemporaneamente verso l’alto, con un rafforzamento degli organismi multilaterali e delle multinazionali private, e verso il basso, con un nugolo di città globali sempre più connesse e ambiziose.
Se pensiamo all’Europa, il meccanismo ci appare chiaro. Gli Stati perdono rilevanza a causa della legislazione comunitaria sempre più pervasiva – lo si vede bene col negoziato sul Recovery Fund -, mentre città come Londra, Parigi, Barcellona, Milano, Amsterdam o Berlino si muovono con autonomia crescente nelle battaglie cruciali per il loro futuro.
Cosa accadrà nel secolo “asiatico”? Naturalmente, non abbiamo certezze. Ma se osserviamo la politica cinese in questo ambito, e nella macro-cornice della BRI, possiamo trarre alcune indicazioni: la Repubblica Popolare incentiva un notevole attivismo locale con collaborazioni città-città, ma lo fa nell’ambito di un disegno organizzato verticalmente. Secondo uno studio anglo-americano, nel periodo 2008-2018 i gemellaggi di città cinesi nella regione del Sud-Est asiatico e Oceania sono passati da 440 a 950, con una preferenza per partner in paesi che hanno minori relazioni diplomatiche con la Cina[2]. A cambiare è quindi la prospettiva: da città globali hub di una rete orizzontale, a città globali asiatiche, avamposti strategici di un potere sovrano strutturato.
Il paradigma urbano cinese
La città asiatica, e quella cinese in particolare, è stata profondamente trasformata dalla colonizzazione europea otto-novecentesca, come dall’immigrazione massiccia dei contadini negli ultimi decenni. Molte aree urbane sono irriconoscibili, essendo stato cancellato il tessuto pre-esistente, mentre dal nulla sono nate megalopoli dai canoni occidentali, interpretati però con l’estremismo dirigistico di Stato.
Tuttavia, alcune caratteristiche tradizionali possono essere ancora rintracciate. In particolare, la relazione originale tra spazio pubblico e spazio privato, del tutto alternativa a quella tipica della civiltà occidentale fondata sull’Agorà/Foro. Nei palazzi, nelle case e persino nelle fabbriche la vita della comunità si svolge all’interno, oltre l’unico ingresso, che garantisce un controllo costante, in uno spazio che sancisce un ambito ibrido, semi-pubblico o semi-privato. L’esempio più simbolico di questa struttura è certamente la “Città proibita” di Pechino.
Questo elemento tradizionale potrebbe acquisire una nuova attualità nel tempo della pandemia. Oggi si parla infatti di “decentralizzare”, un modo per evitare il sovraccarico del trasporto pubblico e garantire il distanziamento sociale, senza per questo congestionare irrimediabilmente il traffico motorizzato. A Parigi e a Milano si progettano citta dei “15 minuti”, dove sia possibile lavorare, divertirsi e accedere ai servizi essenziali senza usare l’automobile. Un’interpretazione del tessuto urbano come tante comunità giustapposte e autonome, multifunzionali e accoglienti. Indipendentemente dal giudizio su tale concezione, è interessante notare come la struttura urbana/edilizia che abbiamo brevemente descritto si mostri da questo punto di vista eccezionalmente flessibile ed efficace.
Ma c’è di più. Il policentrismo della città cinese poggia anche su una potente organizzazione del controllo sociale, realizzata attraverso specifici responsabili e gruppi, con l’obiettivo di aumentare la sicurezza e gestire le emergenze. Nell’epoca del “traccia e cura”, ma anche dell’intrusione digitale, è evidente che tale gestione partecipata può essere estremamente funzionale, come pure lesiva delle libertà individuali e dei diritti civili. Una questione della massima importanza quando ragioniamo del futuro della città.
La città nell’epoca della pandemia
Il concetto di Global City viene codificato dalla sociologa Saskia Sassen all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Partendo dalle sue ricerche su New York, Londra e Tokyo, Sassen spiega come nel sistema economico globalizzato e retto dalla finanza, alcuni nodi urbani diventano essenziali. Contrariamente alle previsioni dei decenni precedenti, che immaginavano downtown spolpate dall’esodo verso i sobborghi grazie a collegamenti interpersonali informatici, il contatto umano si rivela fondamentale per un largo numero di lavoratori ultra-qualificati, e di conseguenza per le multinazionali che li impiegano. Al loro fianco è peraltro necessario un numero consistente di lavoratori umili, perlopiù immigrati, che si prendono cura degli anziani, dei bambini, della casa e dei servizi ausiliari.
Pertanto, la struttura della Global City si rivela spesso “segregante” tra ricchi e poveri, e comunque guidata da logiche commerciali, immobiliari ed economiche frutto del capitalismo privato. Talvolta, la grande ricchezza prodotta a livello locale poteva tradursi in spazi e servizi pubblici, ma ciò non è affatto automatico.
Non possiamo naturalmente prevedere se uno schema dirigistico come quello cinese cambierà le cose – del resto, le diseguaglianze sociali sono enormi nella Cina odierna – ma è possibile che Global City gestite dalle istituzioni pubbliche possano dedicare maggiore attenzione alle conseguenze sociali delle scelte urbanistiche e amministrative. Inoltre, l’emergenza del COVID-19 obbliga tutte le comunità a una maggiore vigilanza: per evitare il proliferare dei focolai è necessario investire in progetti di inclusione sociale, sanità e mitigazione del cambiamento climatico.
L’emergenza ambientale e climatica
Il Secolo asiatico, e il macro-progetto della Nuova Via della Seta, si configurano innanzitutto come un gigantesco e non necessariamente organico piano di sviluppo infrastrutturale, non solo in Asia ma anche in Europa e Africa: ponti, porti, ferrovie, e nuove città, oltre naturalmente ai collegamenti digitali. Se si vuole evitare che tutto ciò si traduca in una catastrofe ambientale – le aree urbane già producono il 70% dei rifiuti solidi e il 60% delle emissioni di gas serra su scala globale – occorre progettare tali trasformazioni con una coscienza ecologica preventiva.
Ridurre l’inquinamento, promuovere una consapevolezza collettiva, mitigare il cambiamento climatico, catalizzare investimenti pubblico-privati sulla rigenerazione urbana, incentivare l’edilizia verde e creare strumenti finanziari ad hoc. Tutti questi elementi vanno implementati in contemporanea.
Non basta immaginare e costruire smart city super-ecologiche e super-tecnologiche (la Cina sta attualmente lavorando a due new city nelle Filippine, e altre tre in Malesia, Thailandia e Birmania). Occorre rammendare la stragrande maggioranza di aree metropolitane vecchie, povere e inquinante. Per farlo occorre un approccio sistemico. Se la BRI riuscirà a metterlo in campo, vorrà dire che avremo a disposizione una strategia di lotta al cambiamento climatico a lungo termine. In caso contrario, ci troveremmo di fronte a un’emergenza planetaria ancora più drammatica.
In conclusione, occorre ricordare che nei prossimi mesi potremmo dover convivere con nuove ondate di Coronavirus. In questo senso, studiare le risposte differenti che le varie città hanno dato all’emergenza (e non solo in Asia) è fondamentale, come pure individuare i modelli rivelatisi più resilienti. Ne va della nostra capacità di contenere la pandemia.
Per approfondire: Global Cities and China’s BRI in the Age of Covid-19
[1] Secondo i calcoli di Richard Florida, il Pil prodotto nel 2015 dalle prime dieci città del mondo era superiore a quello aggregato di Germania e Giappone. Tokyo sarebbe quindicesima nella classifica tra gli stati del mondo, subito sotto la Corea del Sud. L’economia di Londra sarebbe comparabile a quella dell’Olanda, e Parigi sarebbe più ricca dell’intero Sud Africa. Del resto, anche per Eurostat il Pil delle due metropoli europee supera quello di Belgio, Austria, Danimarca, Irlanda e Ungheria.
[2] Custer, S., Russell, B., DiLorenzo, M., Cheng, M., Ghose, S., Sims, J., Turner, J., and H. Desai. (2018) “Ties That Bind: Quantifying China’s public diplomacy and its ‘good neighbor’ effect.” Williamsburg, VA. AidData at William & Mary.