Leggi tutto il documento: L’ultimo sindaco di Roma – di Tobia Zevi
Da parecchi anni il dibattito sulle riforme necessarie alla città di Roma sembra essersi avvitato. Si oscilla tra rassegnazione e velleitarismo: da una parte, infatti, tutti sono consapevoli che anche la Capitale d’Italia, come le sue colleghe europee, ha bisogno di risorse e competenze legate alla sua funzione nazionale
E in questa ottica si avanzano proposte utili per ottenere un titolo di giornale ma del tutto slegate da prospettive concrete. Dall’altra, di conseguenza, ci si limita nei fatti a constatare un dato di realtà: gli italiani non sono disposti a riconoscere a Roma il suo status di capitale, non la amano e anzi negli scorsi decenni hanno costruito fortune politiche proprio sulla critica e sul dileggio dei presunti difetti della Città eterna.
Non è questa la sede per una trattazione storiografica né per una disamina culturale e semantica: basti ricordare per ora come una serie di epiteti abbiano qualificato Roma nei 150 anni che ci separano dalla Breccia di Porta Pia: “malamata”, “corrotta” e “ladrona”, per citarne forse i più noti. Senza dimenticare “Controroma”, una raccolta di saggi recentemente aggiornata in cui autorevoli intellettuali si scagliavano contro il loro stesso luogo di residenza. Per finire con una banale considerazione storica: Roma non è una capitale costruita “a tavolino” (Brasilia), né scelta per inerzia inevitabile (Londra, Parigi), né infine per evidenti motivazioni politiche (Ankara dopo la Rivoluzione kemalista o Berlino dopo la riunificazione).
L’insediamento delle istituzioni a Roma, che quest’anno celebra in sordina un così importante anniversario, origina da un ricco e complesso dibattito parlamentare e politico al culmine del Risorgimento – una vicenda per molti aspetti irripetibile.
In ogni caso, questo studio rappresenta un tentativo di superare rassegnazione e velleitarismo. Fornire una prospettiva decennale di riforma della Capitale consente di analizzare problemi e storture del nostro ordinamento, come pure di coglierne le opportunità. Permette inoltre di elevare il livello del dibattito pubblico a pochi mesi dalle elezioni amministrative – un’esigenza assolutamente fondamentale anche agli occhi del mondo. E infine richiama la classe dirigente locale e nazionale alle sue responsabilità nei confronti della nazione: ho cercato qui di dimostrare che un progresso graduale e riformista è possibile, anche a Roma. Che non servono i proclami ma lo sforzo congiunto e trasversale di istituzioni e partiti al di là degli schieramenti. Si può fare, servono solo impegno e tenace volontà politica.
Chi scrive non è un giurista ma un dirigente politico. Mi si contestino dunque i ragionamenti nel merito, perché posso aver commesso errori di ricostruzione o di valutazione. Ma non si accantoni, per cortesia, l’argomento come fosse un orpello fastidioso. Ne va del futuro di Roma che si intreccia con quello dell’Italia intera. In questo senso, mi si consenta una vera e propria occupatio: ho volutamente usato un linguaggio tecnico, persino un po’ pesante (in Francia si direbbe langue de bois). L’ho scelto perché vorrei mettere al riparo questo lavoro dalla polemica politica quotidiana che mi vede co-protagonista, e che invece dovrebbe essere tenuta al di fuori del ragionamento “costituente” su Roma che qui ho modestamente provato a sviluppare.
Perché dunque Roma è essenziale per il futuro dell’Italia? Qui sta la questione. Le ragioni sono essenzialmente due, una economica e una democratica. Dal punto di vista economico, Roma è cresciuta negli ultimi dieci anni al di sotto della media nazionale, prima e dopo la crisi. Di per sé questo dato è già strano: la Capitale ha sempre avuto un andamento anticiclico rispetto alle crisi per via del grande ruolo nell’economia della pubblica amministrazione e del suo indotto. Ma in questo caso il punto è un altro: Roma ha tirato verso il basso l’intera economia nazionale, dal momento che il sistema-Italia è già duale: crescita molto alta al Nord e molto bassa al Sud. La novità dell’ultimo decennio è proprio il crollo dell’area metropolitana di Roma: è l’andamento romano ad aver tirato verso il basso l’intera economia nazionale.
Quanto alla democrazia, tutti sanno che a Roma si trovano tutte le istituzioni dello Stato e della Repubblica. Ora, è evidente che gli italiani non potranno mai davvero riconoscersi in uno Stato che risiede in una Capitale “malamata”. Il rapporto problematico degli italiani con Roma – così diverso da contesti quali Francia e Gran Bretagna, ma anche da modelli federali come Spagna e Germania – è causa del rapporto complesso tra italiani e istituzioni nel loro complesso. Ora: se fino a ieri ciò poteva essere materia per gli studiosi, oggi tutto questo è drammatica urgenza politica. Come è pensabile ricostruire il Paese dopo il Coronavirus senza un grande impegno coordinato nel Recovery Plan, e una totale immedesimazione anche emotiva in un progetto di riscatto nazionale? Nessun paese può ripartire lasciando indietro la sua capitale.