È un grande privilegio per me potermi confrontare con il compito che mi è stato attribuito, e di questo ringrazio la rivista “Ditutticolori”. Mi trovo in un momento particolare della mia vita e del mio impegno pubblico, perché da qualche mese il mio lavoro nella città di Roma ha cambiato forma e obiettivo.
Nel luglio scorso mi sono candidato a sindaco della città, e questa ambizione alta ha trasformato radicalmente le mie giornate, talvolta anche il corso dei miei pensieri. Come spesso in questi casi, il rischio è quello di essere travolti dalle incombenze, dalle urgenze quotidiane, dalle tattiche dettate dai media e dai mezzi di comunicazione. Allo stesso tempo, la seconda ondata della pandemia ci obbliga tutti a misurarci con problemi piccoli e grandi di natura personale, che occupano le nostre menti e purtroppo affliggono i nostri cuori. In questo contesto, dunque, mi viene chiesto di commentare il quinto capitolo della lettera enciclica “Fratelli tutti”, pubblicata pochi giorni fa da papa Francesco, la sezione dedicata alla “migliore politica”. E dunque di indirizzare il mio sguardo contemporaneamente dentro e fuori: a scorgere i miei sentimenti e a circoscrivere meglio la ragione ultima per cui ci si impegna in politica.
Vorrei quindi partire con una breve premessa: non c’è contraddizione tra la visione globale del pontefice e il lavoro quotidiano che svolgiamo, ognuno per la sua parte, nelle strade della nostra città. Non solo perché Roma è centro della cristianità e capitale dalla vocazione universale. Anche per un’altra ragione: le città sono, nel nostro mondo, il luogo dove si concentrano con maggiore forza le contraddizioni, gli eccessi, gli squilibri, le ingiustizie e le opportunità della globalizzazione. Oltre la metà degli abitanti del pianeta vive ormai in contesti urbani, e questa quota è destinata ad aumentare nei prossimi anni. Le città consumano energia, producono rifiuti, inquinano, e pure contribuiscono alla ricchezza mondiale, oltre a definire le principali prospettive di innovazione tecnologica e culturale. Ma nelle periferie urbane – che già nell’enciclica “Laudato si’” papa Francesco chiariva essere non soltanto geografiche, ma anche umane, sociali e culturali – si formano le più spaventose diseguaglianze, si cronicizzano le più tremende forme di esclusione economica, educativa e culturale. Nella nostra città, in questo momento, l’aspettativa di vita varia da un Municipio all’altro, cioè a pochi chilometri di distanza. L’indice di sviluppo umano, che tiene conto di vari parametri, configura la mappa di più città all’interno dei confini comunali: quartieri del primo mondo, e quartieri che potrebbero trovarsi in una delle tante città in via di sviluppo di altri continenti. Dove c’è la povertà, le povertà, l’età media si abbassa: questo ci dicono i dati. E una comunità che penalizza bambini e giovani perde la speranza nel futuro.
Alla luce di queste riflessioni e di questa consapevolezza mi sono andato a leggere il testo che mi è stato affidato. E vi ho trovato il riferimento a una serie di parole-chiave che vanno evidenziate per essere poi analizzate. Spesso si tratta in effetti di coppie di parole. Proviamo a vedere.
Popolo/persona – populismo/individuo. Papa Francesco ci mette in guardia dalle semplificazioni: la giusta battaglia contro il populismo, che nel mondo sfrutta le ansie delle classi sociali più deboli per proporre una ricetta fallace, non deve impigrirci. Criticare l’intolleranza verso l’altro da sé non deve portarci a ignorare la preoccupazione, la frustrazione e la paura di tanti nostri “fratelli” e concittadini che sono sedotti da questi sentimenti loro malgrado, perché temono sulla propria pelle le conseguenze di un sistema economico sregolato, la rivoluzione del mercato del lavoro e l’indebolimento di quell’ampio segmento sociale che un tempo si chiamava “classe media”, e che in definitiva sembrava garantire un ciclo di emancipazione duratura all’intera società. A mio giudizio tutto parte dal nostro sguardo, dalla nostra curiosità: chi conosce per davvero, oggi, la condizione delle romane e dei romani, dei nostri vicini di casa? Chi si è interrogato su come si vive in un complesso di case popolari – a Casalbruciato, a Torre Maura – dove per mesi non funzionano né l’ascensore né l’impianto di riscaldamento? Chi si è domandato quale sensazione si deve provare a organizzare una festa per il primo collegamento bus che raggiunge il proprio quartiere, come accaduto a Massimina? Chi si è chiesto l’effetto che fa risiedere a Ostia Nuova, in strade prive di qualunque servizio e dignità, dove l’unica risorsa rischiano di essere il pacco alimentare elargito da gruppi di estremisti di destra o l’assistenza velenosa di una famiglia mafiosa? O ancora, vivere in un condominio dove nessuno fa caso a un anziano morto da giorni? O aver paura della pioggia per il rischio di finire sommersi, come è spesso capitato in varie zone di Roma Nord? Ci abbiamo pensato, che per un adolescente di Tor Bella Monaca, e di molti altri quartieri romani, i 130 euro al giorno che la mafia garantisce come vedetta sono un’essenziale fonte di reddito per l’intera famiglia, e una prospettiva assai più credibile di quelle fornite dallo Stato? Lo sappiamo che ci sono scuole di Roma nelle quali le insegnanti gestiscono la rotazione delle visite in carcere che gli studenti fanno ai genitori reclusi?
Senza questa curiosità e la consapevolezza che ne deriva il disprezzo del populismo è destinato a risultare peloso, e quindi a essere a sua volta disprezzato da chi se ne dovrebbe sentire colpito. Dobbiamo recuperare uno sguardo benevolo sulle persone, il cui miglioramento delle condizioni di vita è il nostro obiettivo primario. Questo deve fare un sindaco: prodigarsi per migliorare le condizioni di vita dei suoi concittadini. Semplice. L’individuo – come ci insegna l’etimologia parente del verbo “dividere” – è una monade in un mondo atomizzato. La persona è invece un ingrediente essenziale di una società articolata su vari livelli – famiglia, corpi intermedi – che si vive come popolo, cioè come soggetto politico. Questo è un grande messaggio: riportare il popolo al centro della scena pubblica come soggetto politico e non come destinatario di uno sguardo sbrigativo, di volta in volta benevolo o sprezzante.
Per farlo, occorre innanzitutto ribadire che la dignità della persona si conquista attraverso il lavoro. Senza un reddito e senza un’occupazione – che significa anche relazioni e competenze – nessuno può sentirsi davvero realizzato. Ci troviamo purtroppo nel pieno di una pandemia globale, ma dobbiamo renderci conto che l’impatto di questa tragedia non è solo di tipo sanitario, e non è spalmato equamente tra tutti. Fa differenza avere una casa grande, un computer, una famiglia affettuosa, oppure vivere un lockdown di miseria, violenza e solitudine. Le conseguenze socio-economiche sono spaventose, tanto più in una città con le caratteristiche di Roma: un’economia basata sul turismo e sui servizi a basso valore aggiunto, e soprattutto un sistema economico che già prima del Coronavirus mostrava pesanti segnali di crisi. Un numero su tutti: quasi trecento mila (!) romane e romani disoccupati e inoccupati già prima della crisi, un esercito di esclusi che oggi si è certamente ingrossato. Di fronte alle saracinesche che si abbassano per sempre, alle aziende che chiudono, alle famiglie che perdono la fonte primaria di reddito, non possiamo rimanere con le mani in mano. Occorre progettare un futuro diverso che abbia altre tra le caratteristiche indicate da papa Francesco: carità, verità e apertura. Occorre nello stesso momento percepire l’urgenza drammatica dell’ingiustizia sociale che ci sta intorno (in ebraico non esiste il termine carità, ma solo quello di Tzedakà = giustizia sociale), individuando anche le responsabilità pubbliche, personali e collettive che hanno indotto tale stato di cose. Nel caso di Roma ciò è tanto più vero. La condizione della città è il frutto del malaffare, dei centri di potere, della miopia delle classi dirigenti, di chi si è approfittato della povera gente. Soltanto quando avremo percepito fino in fondo il dramma umano e sociale che abbiamo dinnanzi, e dopo aver detto la verità, potremo “aprire” la città alle moltissime opportunità che provengono dal resto del mondo – un mondo che considera Roma un vero e proprio punto di riferimento, un valore assoluto -, rilanciandola anche dal punto di vista economico.
Chi dovrà essere il motore di questo cambiamento? Risponderemmo: la migliore politica. Già, ma quale? A leggere il testo papale emerge una parola apparentemente sorprendente: rinuncia. La politica della rinuncia è quella che sa mediare tra interessi contrapposti, dosando i tempi giusti, senza però perdere la bussola ultima dei propri obiettivi ultimi. La politica che sa individuare il compromesso più affidabile e realistico, il bene possibile (o il male minore). Una politica che non venda l’anima per interessi particolari, ma sappia essere realistica e ambiziosa. Prendiamo il problema della casa, annoso da decenni nella nostra città: è possibile che dopo tantissimi anni siano ancora vere le parole di don Luigi Di Liegro, il quale tuonava contro una città “piena di case vuote e di persone senza casa”? Possibile che una capitale europea non sappia risolvere il problema atavico di alcune migliaia di famiglie senza un tetto? Una metropoli, peraltro, che ormai da mezzo secolo ha arrestato la sua crescita demografica, e anche anzi ormai decresce tristemente nel numero da alcuni anni? Una politica degna di questo nome non si rassegna a una simile ingiustizia, e risolve pragmaticamente il problema mediando tra i vari interessi in campo. Papa Francesco parla anche dei movimenti, cioè di ciò che definirei terzo settore o società civile. La partecipazione dei cittadini è fondamentale, a livello locale come a livello globale. Nessuna battaglia può essere vinta davvero se non ha per protagonisti i destinatari di quella stessa lotta.
Vorrei concludere con un ultimo aspetto, forse il più complesso perché più intimo e personale. Occorre – spiega papa Francesco – amore politico. Sembra di leggere un ossimoro. E dunque il testo ci viene in soccorso con una bellissima metafora: se aiutare un vecchio ad attraversare il fiume è segno di “squisita carità”, compito del politico è costruire un ponte, una forma di carità non meno nobile. Tutto chiaro? Il politico è dunque colui che risolve il problema dalla riva, dall’argine alto del fiume? Senza sporcarsi le scarpe con il fondo limaccioso che costeggia l’acqua, senza arrischiarsi in quella “terra di nessuno” che possiamo purtroppo osservare facilmente a ridosso del nostro malamato Tevere? Davvero si tratta solo di questo?
No, conclude Francesco con un apparente contraddizione. Perché nemmeno l’amore politico deve rinunciare alla tenerezza – parola del tutto estranea al campo semantico della politica e della vita pubblica. Siamo nell’ambito di ciò che sopra ho definito “curiosità”. Non possiamo dimenticarci – chiunque sia attivo nella vita pubblica – che il fine ultimo del nostro lavoro è migliorare la vita delle persone, curarne le ferite. Ed è possibile che per farlo si debba prestare grande attenzione agli aspetti tecnici, freddi. Ma senza perdere il contatto con la realtà umana, l’innesco dell’impegno sociale: quello sguardo tenero sul nostro prossimo. Accogliente, non giudicante. Curioso di capire, non prevenuto. Solo seguendolo potremo davvero conoscere le storie delle persone che serviamo, le storie su cui deve basarsi la “migliore politica”.